Salotto letterario

Visibile e invisibile

Visi­bi­le e invisibile 

Poche atti­vi­tà, oltre all’editoria let­te­ra­ria, aspi­ra­no a un simi­le obiettivo.

A chi altri si chie­de di asse­con­da­re le ten­den­ze del pro­prio tem­po e insie­me indo­vi­na­re i trat­ti del clas­si­co, del sem­pre­ver­de, di ciò che non invec­chia e che, nei decen­ni, nei seco­li, soprav­vi­ve intatto?

Non all’artista di talen­to, che può esse­re la chia­ve del pro­prio tem­po o può mori­re in soli­tu­di­ne, per­ché la for­tu­na uma­na non infi­cia il valo­re di un libro, di un qua­dro o di uno spar­ti­to. Il vero arti­sta inter­cet­ta l’invisibile e, per quan­to pos­sa lusin­gar­lo, il con­sen­so degli altri non gli è neces­sa­rio. Il gran­de arti­sta non appar­tie­ne al mondo.

Non all’imprenditore di talen­to, che deve vive­re immer­so nel pro­prio tem­po per com­pren­der­ne le imme­dia­te neces­si­tà e stu­diar­ne gli svi­lup­pi. Per quan­to visio­na­rio, il suo suc­ces­so è lega­to ai biso­gni di un’epoca, si nutre del con­sen­so di chi ne bene­fi­cia: può sì attra­ver­sa­re più gene­ra­zio­ni, ma resta al ser­vi­zio degli uomi­ni e, come gli uomi­ni, non dura. Il gran­de impren­di­to­re appar­tie­ne al mondo.

All’editore let­te­ra­rio si chie­de, inve­ce, di anda­re nel mon­do sen­za esse­re del mon­do. Gli si chie­de un’attitudine al visi­bi­le: deve espri­mer­si con il lin­guag­gio del suo tem­po, per­ché se par­las­se una lin­gua incom­pren­si­bi­le, nes­su­no ne capi­reb­be il lavoro.

E per l’editore, come per chiun­que vada nel mon­do, esse­re com­pre­so è sino­ni­mo di esse­re. Al con­tem­po, però, la sua ricer­ca deve scal­fi­re la coraz­za del tran­si­to­rio e affon­da­re nell’universale. Non è un edi­to­re let­te­ra­rio chi, per­den­do­si nell’invisibile, non rie­sce a tra­spor­tar­lo nel mon­do; ma nep­pu­re è un edi­to­re let­te­ra­rio chi, per­den­do­si nel­le sole dina­mi­che del visi­bi­le, dimen­ti­ca che un vero libro soprav­vi­ve agli occhi che l’hanno let­to. O non è un libro.

“È un’utopia!”, qual­cu­no sta­rà pen­san­do. For­se lo è. Ed è per que­sto che Uto­pia si chia­ma così.