Tradurre è tradire, si dice. Qual è il tuo rapporto con la pagina in traduzione?
Pensare alla traduzione in termini di fedeltà o tradimento secondo me è fuorviante, perché la traduzione non è una mera trasposizione interlinguistica di significanti e significati. Tradurre per me vuol dire accogliere, mettersi all’ascolto, un ascolto attento, rispettoso e carico di empatia nei confronti di questo “straniero”, di questo “altro” che è il testo letterario. Quando traduco mi metto al servizio del testo e, ferma restando la massima attenzione nei confronti dell’originale, il mio obiettivo è cercare di fare in modo che il testo tradotto susciti in chi lo legge lo stesso effetto che il testo originale produce sui suoi lettori.
Cosa resta di te nella resa in italiano di un’opera?
Resta il mio sguardo, la mia lettura di quel testo. Gesualdo Bufalino ha scritto che “il traduttore è con evidenza l’unico autentico lettore di un testo”. Ecco, per me il traduttore è una sorta di protolettore, e poiché leggere è interpretare, lo sguardo di chi traduce è inevitabilmente presente, per quanto si possa cercare di mantenersi il più possibile invisibili. La traduzione è un’arte performativa, è eseguire una musica che qualcun altro ha composto. Così come uno spartito, una sequenza di note non è di per sé una melodia, finché qualcuno non la suona, dando vita a quei segni attraverso la propria interpretazione, il testo letterario prende vita ed esiste solo nel momento in cui qualcuno lo legge, lo fa risuonare in sé. Per dirla con le belle parole di Francisco Umbral: “Il libro è solo il pentagramma dell’aria che il lettore deve cantare. […] Da quei segni, da quelle lettere stampate formicolanti e secche, la mia immaginazione innalza un mondo, un bosco, un’idea, e dalle pagine del libro escono continuamente uccelli in volo”. Tradurre è un po’ questo, è suonare uno spartito, è trasformare le lettere in melodie. Una forma privilegiata di lettura.
Stai traducendo un libro per Utopia che ha segnato, nell’edizione originale, la letteratura araba. Presto saranno rivelati i dettagli sul progetto. Cosa ti ha spinto ad accettare la sfida di un editore emergente?
Se non amassi le sfide, probabilmente non avrei scelto questo mestiere. Alla base del progetto di Utopia c’è una concezione dell’editoria e della letteratura in cui mi ritrovo pienamente. L’idea di privilegiare il valore squisitamente letterario di un’opera anziché lasciarsi guidare solo dalle logiche di mercato è piuttosto in controtendenza nell’attuale panorama editoriale e per come la vedo io è ciò di cui la nostra editoria ha bisogno: una vera e propria boccata d’ossigeno.