
Tradurre è tradire, si dice. Qual è il tuo rapporto con la pagina in traduzione?
È un rapporto improntato all’ascolto, al rispetto e alla cautela. Penso al processo traduttivo come a una pratica amorosa che richiede empatia con il testo, la sua interezza e unicità, i pregi e i difetti, le variazioni di tono e di registro, i silenzi e le reticenze… È un processo di umile intermediazione: si impara a conoscere e trasformare l’altro accogliendolo e rispettandolo, senza volerlo cambiare ma cercando di renderlo altrettanto libero nel nuovo contesto linguistico. Pur nella consapevolezza che non sempre si riesce ad accogliere “tutto” del testo fonte e non sempre si è in grado di liberarlo completamente nella lingua d’arrivo. C’è chi lo chiama tradire, io lo chiamo semplicemente tradurre.
Cosa resta di te nella resa in italiano di un’opera?
Mi auguro sempre che la mia mano rimanga dietro le quinte, ma di certo non posso evitare che traspaia il coinvolgimento emotivo, l’impegno intellettivo e linguistico che, con tutti i limiti personali, temporali e geografici, intervengono e orientano le scelte traduttive. Per dirlo alla Beckett, ogni volta mi riprometto di fail better.
Stai traducendo un libro per Utopia che ha segnato, nell’edizione originale, la letteratura francese. Presto saranno rivelati i dettagli sul progetto. Cosa ti ha spinto ad accettare la sfida di un editore emergente?
L’essere un editore nuovo, dal nome poi così significativo ed evocativo, che presenta un programma editoriale strutturato di qualità, audace e fuori dal coro. Quindi il testo proposto: mi è sembrato fin da subito molto stimolante, confermandosi, nel corso di lettura e traduzione, davvero bello e importante, direi anzi necessario.