
Tutto è iniziato a un tavolo della cremeria Buonarroti, a Milano, una mattina d’inverno. Utopia era appena un’idea. “Ho letto i suoi libri in biblioteca. Mi ha sorpreso, è un autore straordinario”, dico impacciato. Scopriamo di amare entrambi la poesia. Abbiamo frequentato la stessa università. Entrambi siamo nati in città del sud. “Nella sua corsa verso il vuoto, l’editoria di oggi ha sacrificato libri come questi”, dice. Sono d’accordo, conosco bene l’editoria. La conosciamo entrambi, per la verità, perché entrambi abbiamo lavorato come editor e in case editrici.
Proseguo io, parlando di Cioran ed Eliade, della mia stima per la loro letteratura. Confesso che proprio loro mi hanno portato a sedermi al tavolo della Buonarroti, quella mattina. “Eliade era convinto che fosse un genio”. E continuo: “L’ha portato a un passo dal Nobel”. Poi chiudo, secco: “Vorrei che le opere di Piero fossero uno dei pilastri di Utopia. È un romanziere visionario, è un saggista attento ed empatico, ha una lingua poetica ed evocativa”. Dall’altra parte arriva un sorriso, poi una promessa di riflessione. “Piero sarebbe stato felice di tornare in libreria, sostenuto da una squadra giovane e attenta, in un catalogo di suoi pari”, conclude. Ci salutiamo.
Passano pochi giorni e Magì, la vedova di Piero Scanziani, mi scrive. Ha deciso. Vuol concedere a Utopia il diritto di riportare i titoli del marito in libreria, uno dopo l’altro. È così che le storie hanno inizio, quando la poesia cementa l’intesa umana. Alla sua mail Magì allega una foto: è con Piero, sorridono felici. “Poche cose sopravvivono alla morte”, mi dico, “e tra queste, senza dubbio, l’amore e la letteratura”.