
Tradurre è tradire, si dice. Qual è il tuo rapporto con la pagina in traduzione?
La popolare allitterazione non tradisce né tramanda alcuna verità misteriosa. È un caso di sfortunata fortuna. Fedele? Il traduttore deve esser fedele? Forse. Ma come? Fedeltà deriva da fides, che vuol dire “fiducia”, “parola data”. La parola data dall’autore è forse una sola, ma tante sono quelle ricevute. La traduzione è solo una veste di quella datità. Come tutte le vesti, prima a poi va fuori moda. Anche la migliore traduzione è destinata a diventare un abito smesso. Ciò che rimane è la parola data, non quella ricevuta. Il traduttore può solo essere tradito dalla propria traduzione. La traduzione non tradisce però se tramanda. È un continuo passaggio di consegne, e in questo risiede la fedeltà del traduttore.
Cosa resta di te nella resa in italiano di un’opera?
Resta molto, almeno finché dura. Non credo all’invisibilità del traduttore, nozione del tutto utopica che presupporrebbe la completa trasferibilità del linguaggio. Certamente la traduzione è un’arte che si nobilita puntando a rimanere ancillare. Di me resta l’idiosincrasia del linguaggio, l’errore, ma anche la creazione, ciò che non va perduto. Rimane l’imperduto del linguaggio.
Stai traducendo un libro per Utopia che ha segnato, nell’edizione originale, la letteratura anglofona. Presto saranno rivelati i dettagli sul progetto. Cosa ti ha spinto ad accettare la sfida di un editore emergente?
Il nome. La traduzione nasce nell’utopia della comunicabilità degli incomunicanti, nella creazione dell’ideale della comprensione, della condivisione.