
Tradurre è tradire, si dice. Qual è il tuo rapporto con la pagina in traduzione?
Parto dal tentativo di essere il più fedele possibile al senso che un testo porta con sé, e quando parlo di senso non intendo solo quindi il contenuto, ovviamente, ma l’insieme di forma e contenuto che costruisce il testo, la sua materia prima. Quindi, stabilisco un patto con me stessa: laddove scelte di natura formale – per non snaturare la bellezza di un verso o la comprensione di un frammento nella lingua di arrivo – impongono un’infedeltà, che questa avvenga senza paura, al contrario, che possa rivelarsi una scelta coraggiosa e necessaria per ricreare nella lingua di arrivo lo stesso effetto voluto o provocato nella lingua di partenza. O crearne uno nuovo, tanto sorprendente da giustificare l’infedeltà. Quando ho dei dubbi, leggo e rileggo ad alta voce il testo tradotto per capire se c’è qualcosa che non suona, un inciampo.
Ecco, cerco di essere leale, sempre, anche laddove a volte sono costretta a non essere fedele.
Cosa resta di te nella resa in italiano di un’opera?
Allora, nel caso della poesia, che è il genere letterario con il quale ho più familiarità, direi che per avere una buona traduzione è necessario che il traduttore abbia un buon orecchio, abbia un senso intimo del ritmo dei versi nella lingua di partenza e di arrivo e abbia anche una domestichezza con la poesia, oserei dire un istinto, o un buon fiuto nel ricreare quella lingua interna del poeta. Il registro, le assonanze, la musicalità che può scovare nel tradurre un testo poetico – magari avendone appena sacrificate altre, “intraducibili” — sono quelle piccole scoperte che permettono di lasciare un’impronta.
Di solito – se mi conosco bene – tendo naturalmente a privilegiare anche in traduzione un registro più asciutto, parole dai suoni aspri, parole meno pompose – quando si può farlo, quando ci sta, perché è un tipo di scrittura che mi è più vicina. Ma ho uno sguardo attento e a ritroso verso questa mia naturale tendenza alla sintesi, perché appunto la fedeltà rispetto al testo originale mi obbliga a fare in modo che io resti in ascolto della sua voce e la rispetti. In generale, direi che partendo dall’ascolto attento della voce dello scrittore, sta a me trovare un tono e una voce mia che funzioni in italiano, che sia in grado di rendere le sfaccettature semantiche e la ricchezza contenuta in un testo.
Mi piace pensare che di me resta quel tocco sufficiente per essere vista e non vista, un lavorìo silenzioso sul testo che lo rende vivo, vibrante e agile, come se fosse stato scritto in italiano.
Stai traducendo un libro per Utopia che ha segnato, nell’edizione in portoghese, la letteratura recente del Brasile. Presto saranno rivelati i dettagli sul progetto. Cosa ti ha spinto ad accettare la sfida di un editore emergente?
Innanzitutto amo le sfide, che mi rinnovano e mi obbligano ad uscire dal luogo comune. Inoltre, credo che la vostra sia un’iniziativa davvero utopica e in questo senso “carica di senso”: una nuova casa editrice nata nel 2020, dopo tutto quello che stiamo vivendo – o non-vivendo più. Lo scambio, l’incontro, il corpo a corpo sembrano diventati momenti rari, e questo anche prima dell’avvento della pandemia. La progressiva virtualizzazione della realtà – per carità, senza critiche, sono anch’io parte di questo nuovo mondo – ci ha resi paradossalmente meno partecipi della storia, forse più spettatori angosciati. Creare una nuova casa editrice, crederci, e poter promuovere autori contemporanei – servendomi quindi anche del mondo virtuale che mi aiuta ad alimentare i mondi che mi abitano — mi è sembrato un eccellente modo per realizzare concretamente l’incontro tra due culture e rendermi utile in senso pratico, attivo, davanti alle previsioni catastrofiche di un mondo in rovina. Ecco, mi piace sentirmi impegnata con una rete di persone che ancora credono nel domani. Poi il fatto di poter suggerire nomi, scambiare idee, questa porta aperta rappresenta un elemento molto accattivante e che forse è particolarmente presente nel caso degli editori emergenti.