Scanziani — Biografia

Scan­zia­ni — Biografia 

Dopo que­ste set­ti­ma­ne dedi­ca­te a Bon­tem­pel­li e a Cela, è il momen­to di intro­dur­re il ter­zo pro­ta­go­ni­sta del nostro catalogo.

Roman­zie­re, sag­gi­sta e gior­na­li­sta, Pie­ro Scan­zia­ni è sta­to uno degli scrit­to­ri sviz­ze­ri più auto­re­vo­li del Nove­cen­to. Nato a Chias­so nel 1908, è vis­su­to tra la Sviz­ze­ra e l’Italia. Negli anni del­la guer­ra, la sua casa di Ber­na diven­ne un cena­co­lo di intel­let­tua­li anti­fa­sci­sti. Men­te cosmo­po­li­ta, viag­giò a lun­go in Euro­pa, Ame­ri­ca e Asia, matu­ran­do una pre­di­le­zio­ne per la filo­so­fia e la cul­tu­ra indiana.

La sua fama inter­na­zio­na­le ven­ne con­so­li­da­ta dall’assegnazione del Pre­mio Schil­ler. Negli anni Ottan­ta, gra­zie al soste­gno di Mir­cea Elia­de, fu can­di­da­to per due vol­te al pre­mio Nobel per la letteratura.

Prisca Agustoni, Traduttrice

Pri­sca Agu­sto­ni, Traduttrice 

Tra­dur­re è tra­di­re, si dice. Qual è il tuo rap­por­to con la pagi­na in traduzione?
Par­to dal ten­ta­ti­vo di esse­re il più fede­le pos­si­bi­le al sen­so che un testo por­ta con sé, e quan­do par­lo di sen­so non inten­do solo quin­di il con­te­nu­to, ovvia­men­te, ma l’insieme di for­ma e con­te­nu­to che costrui­sce il testo, la sua mate­ria pri­ma. Quin­di, sta­bi­li­sco un pat­to con me stes­sa: lad­do­ve scel­te di natu­ra for­ma­le – per non sna­tu­ra­re la bel­lez­za di un ver­so o la com­pren­sio­ne di un fram­men­to nel­la lin­gua di arri­vo – impon­go­no un’infedeltà, che que­sta avven­ga sen­za pau­ra, al con­tra­rio, che pos­sa rive­lar­si una scel­ta corag­gio­sa e neces­sa­ria per ricrea­re nel­la lin­gua di arri­vo lo stes­so effet­to volu­to o pro­vo­ca­to nel­la lin­gua di par­ten­za. O crear­ne uno nuo­vo, tan­to sor­pren­den­te da giu­sti­fi­ca­re l’infedeltà. Quan­do ho dei dub­bi, leg­go e rileg­go ad alta voce il testo tra­dot­to per capi­re se c’è qual­co­sa che non suo­na, un inciampo.
Ecco, cer­co di esse­re lea­le, sem­pre, anche lad­do­ve a vol­te sono costret­ta a non esse­re fedele.

Cosa resta di te nel­la resa in ita­lia­no di un’opera?
Allo­ra, nel caso del­la poe­sia, che è il gene­re let­te­ra­rio con il qua­le ho più fami­lia­ri­tà, direi che per ave­re una buo­na tra­du­zio­ne è neces­sa­rio che il tra­dut­to­re abbia un buon orec­chio, abbia un sen­so inti­mo del rit­mo dei ver­si nel­la lin­gua di par­ten­za e di arri­vo e abbia anche una dome­sti­chez­za con la poe­sia, ose­rei dire un istin­to, o un buon fiu­to nel ricrea­re quel­la lin­gua inter­na del poe­ta. Il regi­stro, le asso­nan­ze, la musi­ca­li­tà che può sco­va­re nel tra­dur­re un testo poe­ti­co – maga­ri aven­do­ne appe­na sacri­fi­ca­te altre, “intra­du­ci­bi­li” — sono quel­le pic­co­le sco­per­te che per­met­to­no di lascia­re un’impronta.

Di soli­to – se mi cono­sco bene – ten­do natu­ral­men­te a pri­vi­le­gia­re anche in tra­du­zio­ne un regi­stro più asciut­to, paro­le dai suo­ni aspri, paro­le meno pom­po­se – quan­do si può far­lo, quan­do ci sta, per­ché è un tipo di scrit­tu­ra che mi è più vici­na. Ma ho uno sguar­do atten­to e a ritro­so ver­so que­sta mia natu­ra­le ten­den­za alla sin­te­si, per­ché appun­to la fedel­tà rispet­to al testo ori­gi­na­le mi obbli­ga a fare in modo che io resti in ascol­to del­la sua voce e la rispet­ti. In gene­ra­le, direi che par­ten­do dall’ascolto atten­to del­la voce del­lo scrit­to­re, sta a me tro­va­re un tono e una voce mia che fun­zio­ni in ita­lia­no, che sia in gra­do di ren­de­re le sfac­cet­ta­tu­re seman­ti­che e la ric­chez­za con­te­nu­ta in un testo.
Mi pia­ce pen­sa­re che di me resta quel toc­co suf­fi­cien­te per esse­re vista e non vista, un lavo­rìo silen­zio­so sul testo che lo ren­de vivo, vibran­te e agi­le, come se fos­se sta­to scrit­to in italiano.

Stai tra­du­cen­do un libro per Uto­pia che ha segna­to, nell’edizione in por­to­ghe­se, la let­te­ra­tu­ra recen­te del Bra­si­le. Pre­sto saran­no rive­la­ti i det­ta­gli sul pro­get­to. Cosa ti ha spin­to ad accet­ta­re la sfi­da di un edi­to­re emergente?
Innan­zi­tut­to amo le sfi­de, che mi rin­no­va­no e mi obbli­ga­no ad usci­re dal luo­go comu­ne. Inol­tre, cre­do che la vostra sia un’iniziativa dav­ve­ro uto­pi­ca e in que­sto sen­so “cari­ca di sen­so”: una nuo­va casa edi­tri­ce nata nel 2020, dopo tut­to quel­lo che stia­mo viven­do – o non-viven­do più. Lo scam­bio, l’incontro, il cor­po a cor­po sem­bra­no diven­ta­ti momen­ti rari, e que­sto anche pri­ma dell’avvento del­la pan­de­mia. La pro­gres­si­va vir­tua­liz­za­zio­ne del­la real­tà – per cari­tà, sen­za cri­ti­che, sono anch’io par­te di que­sto nuo­vo mon­do – ci ha resi para­dos­sal­men­te meno par­te­ci­pi del­la sto­ria, for­se più spet­ta­to­ri ango­scia­ti. Crea­re una nuo­va casa edi­tri­ce, cre­der­ci, e poter pro­muo­ve­re auto­ri con­tem­po­ra­nei – ser­ven­do­mi quin­di anche del mon­do vir­tua­le che mi aiu­ta ad ali­men­ta­re i mon­di che mi abi­ta­no — mi è sem­bra­to un eccel­len­te modo per rea­liz­za­re con­cre­ta­men­te l’incontro tra due cul­tu­re e ren­der­mi uti­le in sen­so pra­ti­co, atti­vo, davan­ti alle pre­vi­sio­ni cata­stro­fi­che di un mon­do in rovi­na. Ecco, mi pia­ce sen­tir­mi impe­gna­ta con una rete di per­so­ne che anco­ra cre­do­no nel doma­ni. Poi il fat­to di poter sug­ge­ri­re nomi, scam­bia­re idee, que­sta por­ta aper­ta rap­pre­sen­ta un ele­men­to mol­to accat­ti­van­te e che for­se è par­ti­co­lar­men­te pre­sen­te nel caso degli edi­to­ri emergenti.

Cela — Utopia

Cela — Utopia 

Ho cono­sciu­to Cela una deci­na di anni fa, al liceo. Ero appe­na rie­mer­so dal­la let­tu­ra di “Delit­to e casti­go” e non riu­sci­vo a con­ge­dar­mi da Rasko­l’­ni­kov. Un per­so­nag­gio irri­sol­to e con­trad­dit­to­rio che ave­va lascia­to un’impronta impor­tan­te nel let­to­re diciot­ten­ne che ero. Sfo­glian­do un inser­to let­te­ra­rio, les­si che un noto cri­ti­co asso­cia­va Dostoe­v­skij a Cela, rico­no­scen­do una conti­nui­tà nel pen­sie­ro dei due auto­ri, nell’indagine psi­co­lo­gi­ca sui per­so­nag­gi e nel­la rifles­sio­ne sul pec­ca­to, sul­la col­pa e sul­la remis­sio­ne. Cor­si in libre­ria e non tro­vai nes­su­no dei suoi roman­zi. Era­no nel cata­lo­go di un gran­de edi­to­re let­te­ra­rio, il pri­mo che vie­ne in men­te quan­do si pen­sa ai libri di qua­li­tà. Eppu­re non veni­va­no ristam­pa­ti da anni. Per for­tu­na esi­sto­no le biblio­te­che, patri­mo­nio ine­sti­ma­bi­le dei let­to­ri. Les­si in pochi gior­ni due roman­zi di Cela, ine­di­ti per chiun­que fos­se nato dopo il ’90, entram­bi in vec­chie edi­zio­ni ingial­li­te. Uno stril­lo di Ita­lo Cal­vi­no ne par­la­va come di ope­re con pochi pre­ce­den­ti, dei veri clas­si­ci del­la modernità.

In die­ci anni non è cam­bia­to nien­te. Le libre­rie, col­me di car­ta, non han­no mai tro­va­to spa­zio per un genio come Cela. A gen­na­io per­ciò, con le idee chia­ris­si­me, sono par­ti­to per Madrid col solo obiet­ti­vo di chie­de­re al figlio di Cami­lo il per­mes­so di ripub­bli­ca­re in Ita­lia, roman­zo dopo roman­zo, tut­ta l’opera di que­sto gigan­te. È sta­to un sì inat­te­so. Avreb­be potu­to asse­gna­re i dirit­ti a qual­sia­si edi­to­re e inve­ce ha con­ces­so a una gio­va­ne casa edi­tri­ce di ripor­ta­re suo padre in libre­ria. Quan­do Cela ha rice­vu­to il Nobel, nel 1989, nes­su­no di noi, qui in Uto­pia, era anco­ra nato. Ma cre­do fer­ma­men­te che sia que­sto il mira­co­lo del­la letteratura.
(Gerar­do Masuc­cio, edi­tor di Utopia)

Patrizio Ceccagnoli, Traduttore

Patri­zio Cec­ca­gno­li, Traduttore 

Tra­dur­re è tra­di­re, si dice. Qual è il tuo rap­por­to con la pagi­na in traduzione?
La popo­la­re allit­te­ra­zio­ne non tra­di­sce né tra­man­da alcu­na veri­tà miste­rio­sa. È un caso di sfor­tu­na­ta for­tu­na. Fede­le? Il tra­dut­to­re deve esser fede­le? For­se. Ma come? Fedel­tà deri­va da fides, che vuol dire “fidu­cia”, “paro­la data”. La paro­la data dall’autore è for­se una sola, ma tan­te sono quel­le rice­vu­te. La tra­du­zio­ne è solo una veste di quel­la dati­tà. Come tut­te le vesti, pri­ma a poi va fuo­ri moda. Anche la miglio­re tra­du­zio­ne è desti­na­ta a diven­ta­re un abi­to smes­so. Ciò che rima­ne è la paro­la data, non quel­la rice­vu­ta. Il tra­dut­to­re può solo esse­re tra­di­to dal­la pro­pria tra­du­zio­ne. La tra­du­zio­ne non tra­di­sce però se tra­man­da. È un con­ti­nuo pas­sag­gio di con­se­gne, e in que­sto risie­de la fedel­tà del traduttore.

Cosa resta di te nel­la resa in ita­lia­no di un’opera?
Resta mol­to, alme­no fin­ché dura. Non cre­do all’in­vi­si­bi­li­tà del tra­dut­to­re, nozio­ne del tut­to uto­pi­ca che pre­sup­por­reb­be la com­ple­ta tra­sfe­ri­bi­li­tà del lin­guag­gio. Cer­ta­men­te la tra­du­zio­ne è un’arte che si nobi­li­ta pun­tan­do a rima­ne­re ancil­la­re. Di me resta l’idiosincrasia del lin­guag­gio, l’errore, ma anche la crea­zio­ne, ciò che non va per­du­to. Rima­ne l’imperduto del linguaggio.

Stai tra­du­cen­do un libro per Uto­pia che ha segna­to, nell’edizione ori­gi­na­le, la let­te­ra­tu­ra anglo­fo­na. Pre­sto saran­no rive­la­ti i det­ta­gli sul pro­get­to. Cosa ti ha spin­to ad accet­ta­re la sfi­da di un edi­to­re emergente?
Il nome. La tra­du­zio­ne nasce nell’utopia del­la comu­ni­ca­bi­li­tà degli inco­mu­ni­can­ti, nel­la crea­zio­ne dell’ideale del­la com­pren­sio­ne, del­la condivisione.

Cela — Una nuova lingua

Cela — Una nuo­va lingua 

Gabriel Gar­cía Már­quez e il nostro Cami­lo José Cela sono sta­ti, secon­do mol­ti cri­ti­ci, le più gran­di voci del­la let­te­ra­tu­ra spa­gno­la del secon­do ‘900. Incar­na­va­no, cia­scu­no su una spon­da diver­sa dell’Atlantico, due model­li rivo­lu­zio­na­ri di scrit­tu­ra che han­no influen­za­to mol­te generazioni.

Cul­to­ri del plu­ri­lin­gui­smo, abi­li defor­ma­to­ri del­la lin­gua e inter­pre­ti di uno spa­gno­lo moder­no e viva­ce, i loro libri rap­pre­sen­ta­no un’autentica eman­ci­pa­zio­ne let­te­ra­ria per la Spa­gna, nel caso di Cela, e per il Suda­me­ri­ca, nel caso di Már­quez, per­ché entram­bi han­no gui­da­to le rispet­ti­ve let­te­ra­tu­re ver­so una rina­sci­ta inter­na­zio­na­le di cui mol­ti scrit­to­ri più gio­va­ni han­no poi beneficiato.

Qui, insie­me, nel 1997, in Mes­si­co, per il Pri­mo Con­gres­so Inter­na­zio­na­le del­la Lin­gua Spagnola.

Cela — Un gigante da Nobel

Cela — Un gigan­te da Nobel 

Cer­van­tes è il pri­mo, cer­to, col suo “Don Chi­sciot­te”, ma il secon­do è il nostro Cami­lo José Cela. Lo scrit­to­re spa­gno­lo più tra­dot­to del­la sto­ria. Auto­re di cul­to del Nove­cen­to, ha scrit­to roman­zi che han­no segna­to la sto­ria del­la let­te­ra­tu­ra euro­pea. La cri­ti­ca lo ha acco­sta­to a Joy­ce, a Camus, a Gadda.

Nel 1989 gli fu asse­gna­to, “per la sua pro­sa ric­ca e intensa, che con pie­tà com­po­sta offre una visio­ne niti­da del­la vul­ne­ra­bi­li­tà del­l’uo­mo”, il pre­mio Nobel per la letteratura.

Ades­so che ci cono­sce­te un po’ meglio, ami­ci let­to­ri, vi sem­bra che Uto­pia potes­se esi­mer­si dal pub­bli­car­lo? Da set­tem­bre e nei pros­si­mi anni por­te­re­mo in libre­ria, roman­zo per roman­zo, tut­ta la sua ope­ra. L’o­pe­ra di un gigan­te del nostro tempo.

Bontempelli — Utopia

Bon­tem­pel­li — Utopia 

“L’unico stru­men­to del nostro lavo­ro sarà l’immaginazione”, reci­ta la tar­ga in mar­mo affis­sa al pila­stro del can­cel­lo. A fine gen­na­io non avrei mai pen­sa­to che in poche set­ti­ma­ne pren­de­re un tre­no sareb­be diven­ta­to così com­ples­so. All’alba sono par­ti­to da Mila­no, dire­zio­ne Roma, con una pro­po­sta edi­to­ria­le in tasca.

Ad aspet­tar­mi, in zona Pario­li, oltre la tar­ga com­me­morati­va dedi­ca­ta a Bon­tem­pel­li e alla Masi­no, nel­la casa dove a lun­go la cop­pia di scrit­to­ri vis­se, Alvi­se Mem­mo, nipo­te del roman­zie­re. Gli auto­gra­fi, il ser­vi­zio da tè, i ritrat­ti di Savi­nio. Una lun­ga con­ver­sa­zio­ne sul­la poe­ti­ca, sul­lo sti­le, sul­la for­tu­na edi­to­ria­le di Bon­tem­pel­li. Aned­do­ti, par­ti­co­la­ri, retro­sce­na. “Sai”, mi ha det­to l’erede, “mol­te case edi­tri­ci han­no chie­sto i dirit­ti sui libri di Mas­si­mo”. E ne ha fat­to i nomi, gli stes­si nomi che ven­go­no in men­te a tut­ti quan­do si pen­sa a una casa edi­tri­ce. “L’interesse è vivis­si­mo”, ha aggiun­to. Io ho temu­to il peg­gio e per un atti­mo mi sono per­so nel­le sfu­ma­tu­ra di un de Chi­ri­co fis­sa­to, die­tro di lui, alla pare­te del salot­to. “Mol­ti han­no chie­sto, ma nes­su­no con un pro­get­to così ambi­zio­so. È giu­sto che Mas­si­mo tor­ni in libre­ria e che a curar­lo sia un grup­po di ragaz­zi che è nato trent’anni dopo la sua morte”.

In quel momen­to Uto­pia ha pre­so for­ma, real­tà quo­ti­dia­na che ha il nome dell’ineffabile. Mol­ti altri auto­ri ne han­no con­di­vi­so la stra­da in que­ste set­ti­ma­ne, è vero. Ma Uto­pia è nata quel gior­no, tra le car­te di Mas­si­mo, nel luo­go che più ha amato.
(Gerar­do Masuc­cio, edi­tor di Utopia)

Bontempelli — Editor

Bon­tem­pel­li — Editor 
bontempelli-editor

Come mol­ti dei più gran­di scrit­to­ri del Nove­cen­to, Bon­tem­pel­li si è pre­so spes­so cura dei libri degli altri. Oggi lo si defi­ni­reb­be edi­tor. Tra gli intel­let­tua­li con cui ha lavo­ra­to: Mora­via, Alva­ro, Savi­nio e Pio­ve­ne. Nel ’35 leg­ge i pri­mi rac­con­ti di una ragaz­za di vent’anni. Li tro­va gran­dio­si, mol­to simi­li ai pro­pri, e deci­de di pero­rar­ne la cau­sa. Nel ’37 esce “Ange­li­ci dolo­ri”. Mas­si­mo Bon­tem­pel­li ha sco­per­to così Anna Maria Ortese.

Bontempelli — Biografia

Bon­tem­pel­li — Biografia 

Mas­si­mo Bon­tem­pel­li è nato nel 1878: il suo caro ami­co Piran­del­lo ave­va già die­ci anni e d’Annunzio sta­va già per pub­bli­ca­re i suoi ver­si ado­le­scen­zia­li. Unga­ret­ti, inve­ce, col qua­le anni dopo Bon­tem­pel­li si sareb­be sfi­da­to a duel­lo, feren­do­lo, sareb­be nato solo un decen­nio dopo.

Fu un genio. E, al mon­do, fu il pri­mo a spe­ri­men­ta­re quel gene­re let­te­ra­rio che i cri­ti­ci, col sen­no di poi, avreb­be­ro defi­ni­to “rea­li­smo magi­co”. Mol­ti lo scel­se­ro come model­lo. Buz­za­ti, per esem­pio, che per età pote­va esser­ne il figlio; ma anche Cal­vi­no, ben­ché fos­se di mez­zo seco­lo più giovane.

Sag­gi­sta, edi­tor, tra­dut­to­re, Bon­tem­pel­li si distin­se come roman­zie­re e auto­re di rac­con­ti. L’amicizia di De Chi­ri­co e Savi­nio fu fon­da­men­ta­le e la sua pro­sa risen­tì mol­to dell’influenza del sur­rea­li­smo. Dopo la guer­ra gli fu asse­gna­to il pre­mio Stre­ga. Morì a Roma nel 1960, assi­sti­to amo­re­vol­men­te da Pao­la Masi­no, com­pa­gna di vita e d’arte. Gar­cía Már­quez, dall’altra par­te del mon­do, in quei gior­ni sta­va già pen­san­do a “Cent’anni di soli­tu­di­ne”. Avreb­be segna­to un’epoca, la stes­sa epo­ca che Mas­si­mo ave­va anti­ci­pa­to da lontano.

Identità e conformismo

Iden­ti­tà e conformismo 

Tut­te le case edi­tri­ci ope­ra­no in un con­te­sto eco­no­mi­co. Le leg­gi di que­sto siste­ma decre­ta­no, inop­pu­gna­bi­li, il suc­ces­so o l’insuccesso di una socie­tà e del suo pro­get­to. L’editore let­te­ra­rio si con­fron­ta con mol­ti inter­lo­cu­to­ri: gli agen­ti, gli scout, i tipo­gra­fi, i pro­mo­to­ri, i distri­bu­to­ri, i librai. In un equi­li­brio mobi­le, le doman­de e le offer­te si incro­cia­no e, dal­la sin­cro­nia che ne nasce, il lavo­ro di uno scrit­to­re può incon­tra­re l’attenzione di un lettore.

Se pure non può esser­ne il fine, la soste­ni­bi­li­tà finan­zia­ria deve accom­pa­gna­re un’impresa cul­tu­ra­le ver­so i suoi, più nobi­li, obiet­ti­vi di sco­per­ta, valo­riz­za­zio­ne e dif­fu­sio­ne dell’arte. L’editore let­te­ra­rio deve assi­cu­rar­si che i ver­si di ogni libro rimi­no con la linea di fon­do di un bilan­cio, che le sto­rie del suo cata­lo­go per­met­ta­no a chi le rive­de, le impa­gi­na e ci lavo­ra con amo­re un cor­ri­spet­ti­vo eco­no­mi­co all’al­tez­za del­la mansione.

Pur mos­si da inten­zio­ni ed esi­gen­ze nobi­li, mol­ti edi­to­ri han­no pre­ser­va­to la soste­ni­bi­li­tà rin­ne­gan­do la loro iden­ti­tà. Se soste­ne­re un’idea, la pro­pria, quan­do si è soli tra mol­ti, è piut­to­sto dif­fi­ci­le, più sem­pli­ce è ade­guar­si a un’idea comu­ne, mag­gio­ri­ta­ria, che si disco­sta però dai pro­po­si­ti ori­gi­na­ri. E di qui nasco­no i com­pro­mes­si: i cata­lo­ghi apro­no a libri ina­de­gua­ti, le cura­te­le si rive­la­no imper­fet­te, le tra­du­zio­ni infedeli.

Un edi­to­re let­te­ra­rio non può dimen­ti­ca­re le rego­le del siste­ma eco­no­mi­co, ma deve cer­ta­men­te lavo­ra­re per­ché la pro­pria voce giun­ga, niti­da, a chi lo ascol­ta. Può pre­pa­ra­re la stra­da ai pro­pri testi e, se il ter­re­no è acci­den­ta­to, spia­nar­lo per quan­to è pos­si­bi­le. Resta­re sui pro­pri pas­si, mal­gra­do la fati­ca, piut­to­sto che pren­de­re una scor­cia­to­ia qual­sia­si. Un edi­to­re let­te­ra­rio, insom­ma, deve ven­de­re mol­te copie dei libri che sce­glie e non sce­glie­re i libri che ven­do­no mol­te copie.

“È un’utopia!”, qual­cu­no sta­rà pen­san­do. For­se lo è. Ed è per que­sto che Uto­pia si chia­ma così.